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Eolo
stelle lontane
IL MITO DELL'INFANZIA
UNA FERVIDA RIFLESSIONE DI ALESSANDRO LIBERTINI DELLA COMPAGNIA"PICCOLI PRINCIPI"

Il mito dell’infanzia: una forma di “populismo culturale”?
di Alessandro Libertini


In politica come nel mondo della cultura dominano i demagoghi: persone che mirano unicamente ad accumulare consensi lusingando le aspirazioni del pubblico del momento. Uno degli argomenti più utilizzati da questi “falsi amici del popolo” - come li chiamava un caro amico - è la necessità di dare un volto e una voce alla purezza: purezza intesa come sinonimo di integrità, onestà, innocenza.
Più ci penso, però, più avverto a monte di questo atteggiamento mentale un retropensiero: la convinzione che nell’animo umano si annidi, nascosta da qualche parte, una innata malvagità, e che di questa malvagità il sapere possa costituire una delle cause scatenanti; alla stregua di novelli dottor Jekyll, lo straordinario personaggio di Stevenson, crediamo di poter dominare i lati oscuri del nostro animo, ma prima o poi ne saremo sopraffatti. Il mister Hyde che è in noi avrà la meglio perché solo chi non conosce il male può esserne interamente libero.

L’esaltazione della purezza porta con sé la convinzione che il sapere inquina e che solamente l’ignoranza è garanzia d’innocenza. Ogni forma di conoscenza è vista con sospetto, in qualsiasi ambito e contesto. Di conseguenza il politico che parla come l’uomo e la donna della strada risulta più affidabile, esattamente come l’attore che parla nel linguaggio di tutti i giorni appare subito più sincero. L’artificio, così come l’abilità, la maestria nell’operare, la competenza, invece d’ispirare fiducia suscitano diffidenza.
Da artista frequentatore di rassegne e festival di teatro dedicati all’infanzia, mi sono posto la questione se tutto questo possa avere a che vedere col notevole abbassamento della qualità degli spettacoli. Se cioè la ricerca artistica del nostro tempo non risenta in qualche modo di una concezione populista (per usare un termine di moda) della cultura: di un atteggiamento ideologico che esalta in modo demagogico e velleitario il pubblico come depositario di valori totalmente positivi. E se la diffusa utilizzazione di un linguaggio puerile, ostentatamente rozzo e persino volgare negli spettacoli in questione non sia da leggere come il tentativo da parte di attori, registi e drammaturghi di conquistare a tutti i costi la complicità del pubblico, strumentalmente sovrastimato.
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Alla luce di queste considerazioni vorrei riportare alcuni passaggi a mio avviso pertinenti di un volumetto di George Boas intitolato Il culto della fanciullezza, nel quale il filosofo e storico americano ripercorre per sommi capi la storia del mito della fanciullezza.
La prima idea di un fanciullo portatore di purezza compare secondo Boas in alcuni testi della tarda letteratura greca, nei quali il bambino è considerato un essere caro agli dei perché incontaminato dal mondo corporeo. Con l’avvento del cristianesimo, profezie e testi esaltano la saggezza dei fanciulli - ed in particolare del bambino Gesù - come un dono miracoloso. Infatti il Nuovo Testamento invita a “diventare come piccoli fanciulli” se si vuole entrare nel “regno dei cieli”. Non è chiaro a quale rinascita si riferisca l’evangelista, anche se appare evidente l’emergere di una sorta di anti-intellettualismo, in sintonia con l’Antico Testamento: meno si conosce maggiori sono le possibilità di rimanere puri.

I padri della Chiesa furono tra i primi a disdegnare il sapere, per questo collocarono la mente infantile all’apice della saggezza. A questo proposito, Boas scrive: “L’anti-intellettualista, per trovare questa esemplificazione, si è volto all’uomo primitivo, alla donna, all’inconscio e al fanciullo, nell’ipotesi che ciascuno di costoro possegga una saggezza non appresa dall’insegnamento”.
Nel XVI secolo prende forma l’idea che una persona inesperta, che non ha conoscenze, può essere più virtuosa di una persona di grande cultura. Agrippa arriva ad affermare che il sapere sia un male in sé: “Nulla può riuscire più pernicioso ad un uomo che la conoscenza”. A sostegno della sua tesi porta il fatto storico che Gesù si scelse come discepoli non filosofi o scienziati, ma umili pescatori e falegnami. La verità, afferma Agrippa, va cercata solo nei poveri di spirito, nei fanciulli, i quali sono puri di cuore perché incontaminati.
Nel suo lungo saggio, George Boas dedica diverse pagine a Montaigne, perché è col filosofo francese della fine del ‘500 che nasce l’idea che il fanciullo debba essere istruito. Nel suo De l’institution des enfants afferma che l’animale immaturo rivela subito il suo carattere innato, mentre l’essere umano immaturo lo nasconde. Il fanciullo ha quindi certamente un “carattere congenito” ed è compito dell’educazione sviluppare ogni conoscenza affinché esprima al meglio le sue potenzialità cognitive.
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Si deve però aspettare Rousseau, con l’Emilio del 1762, per introdurre nel pensiero europeo una più radicale tendenza ad apprezzare l’infanzia. Per Rousseau tutto è bene quando esce dalle mani del Creatore e tutto degenera nelle mani dell’essere umano. Il bambino nasce buono; sono poi i pregiudizi, l’autorità, la necessità, i cattivi esempi che soffocano le naturali attitudini del fanciullo. Poiché il bambino non ha un senso innato del bene e del male si rende necessario rafforzarne la capacità di giudizio attraverso l’educazione. Boas sottolinea inoltre che Rousseau reputa importante introdurre nella mente del fanciullo ancora in tenera età il senso di responsabilità, perché deve poter esercitare liberamente la sua volontà evitando l'acquisizione di abitudini.
In merito alla possibilità di conservare la fanciullezza in età adulta, alcuni seguaci di Rousseau - tra cui Pestalozzi - posero le basi delle moderne concezioni secondo le quali il bambino ha bisogno di essere educato senza trascurare le sue innate qualità positive, che lo rendono non solo un "ricettore" ma anche un "creativo".
Le idee di Rousseau influenzarono anche Diderot, il quale pensava tuttavia che, nonostante fossero più vicini alla "poesia della natura", i bambini non erano da imitare. Forse perché, come osserva Boas, “quando gli scrittori francesi trattarono dei fanciulli furono più inclini a scrivere delle loro pene che delle loro gioie”.
Nel XIX secolo Auguste Comte alimentò più di ogni altro la credenza secondo la quale l'infanzia del genere umano fosse rappresentata dal bambino. Questa tesi fu in seguito rafforzata da Freud, il quale afferma nei suoi scritti che l'adulto conserva desideri e tendenze aggressive dell'infanzia, tendenze da considerare primitive e selvagge. Per questo credeva che per conoscere i "primitivi" fosse sufficiente studiare il bambino. Come si può intuire, Freud non fu mai un ammiratore della fanciullezza e non la assunse mai come modello per l'adulto.
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Lo stesso non si può dire di Arthur Schopenhauer, il cui apprezzamento per la fanciullezza emerge con evidenza nelle parole che Boas cita testualmente: “[i bambini sono] sensibili, ragionevoli, desiderosi di sapere e suscettibili di insegnamento, anzi, in complesso sono più disposti e adatti degli adulti ad ogni attività teorica”. Per il filosofo tedesco ogni fanciullo è in certa misura un genio, e ogni genio è in certa misura un fanciullo. L’affinità tra i due si manifesta anzitutto nell’ingenuità e la sublime semplicità del vero genio. La fanciullezza è per Schopenhauer il tempo dell’innocenza e della felicità, il paradiso della vita, il perduto Eden, verso cui ci volgiamo con nostalgia per tutto il restante corso della vita.

La nostalgia per l’infanzia è senza dubbio uno dei sentimenti che caratterizzano il periodo a cavallo tra Otto e Novecento, come testimoniano le opere e gli scritti di pittori, scrittori e critici. Nel 1906 Paul Klee appuntava nei suoi diari: “Voglio essere simile a chi è nato ora; nulla voglio sapere dell’Europa, proprio nulla, né conoscere alcun poeta; essere del tutto immune da enfasi, quasi primigenio come alla nascita”. Per Klee imitare l’infanzia significa uscire dalla tradizione: nell’infanzia è possibile trovare la forza rigenerante necessaria per creare una nuova condizione di vita in opposizione con la civiltà in cui si vive.
Joan Mirò assume una posizione analoga quando disegna lasciandosi portare dalla sua immaginazione piuttosto che dall’osservazione della realtà: l’incontrollata mente creativa del bambino doveva probabilmente funzionargli da ideale. Come lui molti altri artisti che approderanno a movimenti come il Surrealismo o il Dadaismo, in cui freschezza, mancanza di inibizioni, semplicità sono considerate qualità che ne accrescono il valore. Una precisazione si rende però necessaria: se si esaminano con attenzione i lavori di questi artisti tornano alla mente le parole che Paul Valéry scriveva a proposito di La Fontaine: “Qui la trascuratezza è esperta; la negligenza è studiata; la naturalezza è il colmo dell’arte […] Una sostenuta abilità ed innocenza di tal genere esclude, a mio avviso, ogni indolenza o semplicità”.
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Nelle sue conclusioni Boas sottolinea come l’unico aggettivo che compare sempre in elogio del fanciullo è innocente. Per tradizione si credeva che l’innocenza infantile fosse di carattere morale, non estetico - come invece lasciano supporre le affermazioni di Klee. Per Boas la miglior cosa è tornare a Rousseau e dichiarare che il bambino è una varietà della specie homo sapiens, con peculiarità tutte sue. Così, se da una parte non si dovrebbe giudicare il bambino con le unità di misura applicabili soltanto ai più anziani di lui, dall'altra sembra non esserci alcuna buona ragione per giudicare gli adulti con le unità di misura applicabili ai bambini.
Ho letto con grande interesse il saggio di Boas, che trovo di grande attualità nonostante sia stato scritto sul finire degli anni Sessanta. Oltre alla quantità e qualità delle informazioni, vi ho trovato diverse conferme a quel che da tempo vado proponendo in convegni e dibattiti.
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Uno: i bambini non sono né migliori né peggiori degli adulti, sono diversi. E se si considera la diversità una ricchezza, è la diversità dei bambini che va indagata ed esplorata. Perché il bambino è un “creativo” oltre che un “ricettore”, per dirla con le parole di Pestalozzi. Estroso, fantasioso, inventivo, il bambino è portatore di saperi.
Due: l’adulto che si rivolge al bambino in modo infantile, imitandone atteggiamenti e linguaggi, commette un irresponsabile atto censorio. Per paura di inquinarne la purezza nega al bambino il diritto alla conoscenza: requisito indispensabile alla crescita intellettuale ed emotiva di ogni individuo.
Tre: per affermare il diritto alla conoscenza del bambino è indispensabile partire dalla scelta dei linguaggi da utilizzare nella comunicazione. Un corretto rapporto con l’infanzia non può prescindere dal vicendevole rispetto, dal confronto da pari a pari, attraverso il reciproco ascolto, nella totale disponibilità ed apertura.
Quattro: ogni idealizzazione è una costrizione, dietro ogni mitizzazione si nasconde una violenza. Ridimensionare l’idea d’infanzia non vuol dire sminuirla. Dai bambini è possibile imparare. Persino il solo ragionare sull’infanzia può aiutare a comprendere il proprio tempo.
Se smitizzare l’infanzia equivale a liberarla, lo stesso vale per lo straniero, la donna o il “popolo”. Per dare voce a chi voce non ha, occorre dichiarare guerra ai populismi e, tra questi, agli infantilismi. Il persistere di queste alterazioni del linguaggio, nella comunicazione politica come in quella culturale, genera gravi alterazioni della realtà. La conseguenza che ne deriva è una percezione distorta del mondo reale, soprattutto nelle fasce della popolazione culturalmente più deboli.
Penso sia doveroso per chiunque si occupi di politica e di cultura liberare da qualsiasi deformazione la restituzione dei fatti, la presentazione dei dati, l’elaborazione dei pensieri. Per chi svolge un’attività creativa, qualsiasi essa sia, demistificare le fonti ispiratrici, desacralizzare i propri riferimenti culturali, demitizzare il pubblico a cui si pensa di rivolgersi, sono le premesse indispensabili a ogni costruzione di valore.
Sulla base di queste considerazioni credo di poter rispondere affermativamente alla domanda iniziale: l’abbassamento di qualità delle proposte non solo teatrali ma più in generale artistiche, che sembrano non a caso procedere di pari passo col decadimento del dibattito politico, è da attribuire a quel che ho definito "populismo culturale". Col pretesto di sottrarre l’arte e la politica alle élites per restituirli alla “gente”, si svuota l’arte e la politica della loro funzione originaria: suggerire soluzioni possibili ai tanti problemi che affliggono questo nostro mondo, avendo sempre ben presente che non esistono risposte semplici a domande complesse.

ALESSANDRO LIBERTINI Firenze 10 luglio 2018




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